Tutti a scuola. Ma quale scuola? Le voci della piazza riminese

Lo scorso fine settimana sono state organizzate mobilitazioni in diverse piazze italiane per manifestare, a distanza di un anno dal primo lockdown, disagio e opposizione nei confronti della nuova chiusura delle scuole e della DAD.

A Rimini, il 20 e 21 marzo, due piazze distinte si sono fatte carico di portare alla luce il malessere vissuto dalle famiglie nei confronti dell’attuale situazione. Abbiamo preso parte alla scadenza di domenica pomeriggio lanciata da “Tutti a scuola” che ha dato seguito al primo riuscito appuntamento del 6 marzo.

Quella riminese si è caratterizzata soprattutto come una piazza dei genitori, in cui la preoccupazione per il malessere vissuto dai più giovani ha rappresentato il tratto dominante. È emerso con forza un punto di vista ben preciso sul vissuto dei bambini e dei ragazzi e l’urgenza di dare risposte chiare ed immediate per far fronte a questa situazione. Una piazza dunque che si fa portavoce delle esigenze di una generazione che non può esprimersi. Una madre ha infatti precisato: «non sottovaluto assolutamente questa pandemia, che mi ha portato via persone care. Ma al contempo non voglio sottovalutare la salute mentale e fisica dei nostri ragazzi».

Tra gli interventi emerge la forte difficoltà delle famiglie, in particolare delle mamme, nel farsi carico della situazione, ma ciò su cui si mette l’accento è la responsabilità educativa della collettività nei confronti delle nuove generazioni: il movente a prendere parola e spazio, nonostante le restrizioni della zona rossa, è dettato, come sostiene una madre, dal «dovere morale di fare qualcosa per loro» perché, come un’altra mette in evidenza «non è bello vedere un figlio rassegnato, arrendevole e spento».

Ma c’è anche chi invita i ragazzi delle scuole secondarie a mobilitarsi: «io dico ai ragazzi, riprendetevi le scuole, è un vostro diritto. Occupatele, se necessario». Un appello rivolto ad un soggetto troppo spesso colpevolizzato per l’aumento dei contagi e la cui voce è drammaticamente assente dallo spazio pubblico. Per questo forse però, ancor prima di proiettare aspettative adulte sui più giovani, è urgente mettersi in ascolto, tenendo presente che nel corso della pandemia ragazzi e ragazze hanno dovuto affrontare restrizioni della sfera sociale che vanno ben al di là della sola scuola.

In generale, lo spirito della manifestazione potrebbe essere riassunto dalle parole d’ordine coerenza e concretezza.

Coerenza. Perché alla scuola sono stati imposti protocolli e misure di sicurezza la cui utilità viene sistematicamente smentita attraverso le chiusure, ingenerando confusione e rabbia, anche nei più piccoli. Come sostiene una mamma: «hanno avuto fiducia. Gli facevamo disegnare e scrivere “andrà tutto bene”. Ad un anno di distanza siamo qua rassegnati e delusi. E chi deve pagare? I nostri ragazzi. Noi famiglie siamo allo stremo, senza certezze e senza speranze. I protocolli per tenere aperta la scuola in sicurezza ci sono ed hanno funzionato e i giovani sono stati bravissimi a rispettare tutte le regole». Oppure, «da un anno i nostri figli sono solidali nei confronti delle persone più deboli che devono essere tutelate. Quando è il turno della solidarietà nei confronti dei nostri figli?». Si mette dunque a critica una politica che è riuscita a contrapporre la tutela degli anziani e dei più fragili ai diritti dei più giovani, ma che alla fine ha sacrificato entrambi.

Concretezza. Perché «la scuola non è né in estate, né a settembre. La scuola è oggi. Oggi si deve programmare un rientro in classe il prima possibile».

Per dare sostegno a questa esigenza di immediatezza vengono spesso citati dati e pubblicazioni che smentirebbero la correlazione tra scuola in presenza e aumento dei contagi, facendo leva sul fatto che i «protocolli per tenere aperta la scuola in sicurezza ci sono ed hanno funzionato e i giovani sono stati bravissimi a rispettare tutte le regole». Quello dei dati e della loro interpretazione è un tema piuttosto controverso, che sta generando un acceso dibattito nella società. Inutile però negare che alcuni limiti strutturali del sistema scolastico italiano – classi numerose (le famose classi pollaio) strutture inadeguate, ecc. – alimentano e legittimano un senso di insicurezza tra chi a scuola ci lavora. Con questo dato reale occorre fare i conti.

Quindi, al di là della narrazione sulla scuola sicura, risulta difficile non ammettere la presenza di criticità per quel che riguarda molti aspetti del sistema di istruzione. Un padre, pur convinto della sicurezza delle scuole, sottolinea per esempio che «non si è fatto nulla negli ospedali, nelle scuole, sul trasporto pubblico, sul tracciamento. Ve la ricordate l’ex ministro De Micheli, che il 9 settembre dichiarava che i trasporti erano ok? Non vi era alcun problema. Se non siete stati in grado di organizzare la scuola, gli spazi, il trasporto, il tracciamento, perché devono rimetterci i nostri figli?»

E allora, come uscire dall’impasse prodotta dalla polarizzazione tra chi sostiene che le scuole sono un luogo sicuro tout court e chi invece pone l’accento sui loro aspetti maggiormente critici? Come evitare di cadere nella trappola del contrasto tra opposte tifoserie?

Le poche voci della piazza provenienti dall’interno del mondo scolastico provano a sostenere che la sfida è quella di partire dalla messa in discussione della Dad e dalla battaglia per la scuola in presenza per articolare proposte che vadano oltre questi singoli aspetti. Perché se si pretende che la scuola sia un luogo davvero accogliente e sicuro non basta difendere lo status quo, ma occorre battersi per il suo rinnovamento.

Un’insegnante si rivolge alla piazza attraverso una lettera che viene letta dal palco e che esprime disappunto rispetto all’attuale gestione del sistema scolastico, auspicando però allo stesso tempo un’attivazione congiunta da parte della Regione e dei Dirigenti scolastici per valutare protocolli di sicurezza, efficaci e alternativi rispetto alla mera chiusura, prendendo in considerazione anche la possibilità di utilizzare spazi ed edifici esterni rispetto ai locali scolastici.

Ma se questa prospettiva resta comunque ancorata ad un approccio di carattere emergenziale, c’è chi prova a fare un ulteriore passo. L’intervento di un’educatrice scolastica, appartenente alla Rete degli Educatori di Rimini, mette in evidenza le difficoltà vissute dai lavoratori esternalizzati e sottolinea i limiti della Dad per quel che riguarda l’inclusione di alunni disabili, BES e DSA; racconta di un anno di lotte in difesa dei diritti delle educatrici e dei loro assistiti; ma spiega anche come, dal suo punto di vista, alla scuola servano cambiamenti strutturali e permanenti, che vadano oltre e rimangano ben al di là delle fasi emergenziali acute. Al contrario, già ad inizio anno scolastico, a dispetto della retorica dell’ex ministro Azzolina sulla riapertura in sicurezza, «la scuola si è preparata per ripartire in Dad» e quindi «non c’è stato nessun piano per affrontare questo anno scolastico in sicurezza. Forse il piano era proprio la DaD» e ancora: «la crisi pandemica ha mostrato le falle di un sistema scolastico evidentemente fragile ed è forse per questo che viene facilmente preso come capro espiatorio. I plessi scolastici hanno difficoltà strutturali, organizzative e spaziali. Per questo ci vogliono grandi investimenti. Serve un cambiamento di rotta e per realizzarlo serve un’alleanza tra le soggettività che vivono la scuola e che ci lavorano. La scuola deve essere una certezza per tutti e deve avere la priorità, anche in una crisi pandemica. […] Per questo il mio invito è ad andare oltre questa piazza, in un percorso di mobilitazione condiviso e a non fermarsi con la riapertura delle scuole».

Dunque, se l’obiettivo è una scuola aperta, inclusiva e sicura non è sufficiente una battaglia che conduca solo e semplicemente alla riapertura post-pasquale a fronte di un eventuale abbassamento della curva dei contagi. Occorre cambiare rotta rispetto al disinvestimento degli ultimi decenni: servono strutture e personale e diventa prioritario ridurre il numero di alunni per classe. Tutte esigenze ben presenti già prima della pandemia, ma che il Covid ha reso ancor più palesi, così come ha reso evidente la necessità di mobilitarsi per un cambiamento profondo. Altrimenti la scuola resterà un bersaglio facile, il primo a cui mirare in caso di emergenza.