Si può vivere di cultura nel distretto turistico?

Veniamo da un anno di pandemia durante il quale la cultura e lo spettacolo hanno pagato un prezzo molto alto: chiusura di cinema e teatri, cancellazione di concerti ed eventi, lavoratori rimasti appesi ad un filo senza una reale garanzia di reddito. Tutto ciò ha inevitabilmente prodotto proteste e mobilitazioni per rivendicare misure in grado di far uscire migliaia di professionisti da una condizione di invisibilità e precarietà. Condizione spesso preesistente alla pandemia – tanto che un’inchiesta di qualche anno fa definiva queste figure lavorative in termini di soggettività intermittenti [1] – ma che la crisi in atto ha fatto precipitare in tutta la sua drammaticità. Per dare risposte adeguate a problematiche di tale portata è ora di iniziare a chiedersi seriamente qual è – e quale vogliamo che sia – il ruolo di questi professionisti nella nostra società e indagare le relazioni che intercorrono tra il mondo della cultura e il contesto economico in cui è inserita.

La relazione tra cultura ed economia può essere presa in considerazione sotto vari punti di vista. Innanzitutto, su un piano micro, esiste la dimensione economica del lavoro nel settore della cultura e dello spettacolo. Parliamo infatti di persone in carne ed ossa, portatrici di bisogni, desideri e aspirazioni che, come chiunque, necessita di un reddito per farvi fronte. Molto spesso questo tipo di ragionamento viene rimosso dal dibattito pubblico. Viene invece utilizzata strumentalmente un’idea implicitamente “purista” della cultura, secondo la quale chi opera in questo settore lo fa in virtù di una passione, di una vocazione, di un immacolato bisogno di esprimere sé stesso o di dare un contributo allo sviluppo culturale della società. In fondo, il suo, non è considerato un vero lavoro e di conseguenza il tema della remunerazione della sua attività passa in secondo piano. Quasi che per vivere fosse sufficiente la remunerazione immateriale e puramente simbolica derivante dalla soddisfazione nel fare ciò che si fa. Invece anche gli artisti, i tecnici, i grafici, le maestranze e gli operatori a vario titolo del mondo artistico e culturale mangiano, pagano le bollette, amano viaggiare, hanno figli e famiglie… E per far fronte a tutto ciò, passione e realizzazione personale, in genere, non vengono accettate come moneta di scambio. Si arriva così inevitabilmente a minimizzare la precarietà e l’instabilità di reddito vissuta da chi opera in questo settore e a legittimare forme di lavoro sottopagate o addirittura gratuite, come il volontariato.

Su un piano più generale, il nesso tra cultura nelle sue molteplici sfaccettature ed economia risulta evidente nella misura in cui la prima interagisce con il contesto circostante, dando un contributo crescente alla creazione di ricchezza. Si tratta, da questo punto di vista, di una relazione problematica perché chiama in causa la funzione sociale della produzione culturale e le logiche di fondo che ne guidano e orientano lo sviluppo. Qual è il fine ultimo dell’attività culturale? Quello di dare un contributo alla produzione del PIL e alla crescita economica? Si tratta di un settore “merceologico” tra gli altri, la cui utilità sociale può essere valutata prendendo in considerazione semplicemente la commerciabilità dell’output prodotto?

La risposta che viene data a queste domande è, sempre più spesso, affermativa. In molti mettono l’accento sul contributo dell’industria della creatività, nelle sue varie accezioni, allo sviluppo economico, al suo peso in termini di valore generato e occupazione [2]. Viviamo in effetti in un’epoca in cui tutti gli aspetti della vita collettiva devono essere in qualche modo subordinati alle regole imposte dall’economia di mercato, cosicché logiche manageriali e produttivismo si insinuano e permeano la società a 360 gradi. Ciò inevitabilmente determina una strutturale e costante tensione tra l’autonomia della produzione culturale e la sua subalternità alla razionalità economica.

Questi due modi di leggere il rapporto tra cultura ed economia sono evidentemente interconnessi. E ciò che li lega è un apparente paradosso: proprio il forte ancoraggio del mondo della cultura all’economia di mercato, il suo essere considerato un driver dello sviluppo, porta spesso a negare la portata economica del lavoro culturale. Come in tanti altri settori, la razionalità economica conduce a vedere il lavoro come un input produttivo tra gli altri, certo imprescindibile, ma il cui costo va abbattuto. L’enfasi sul volontariato e sulla gratuità delle prestazioni, la precarietà e l’assenza di diritti, sono aspetti funzionali alla riproduzione di un modello di sviluppo strutturalmente fondato sull’iniqua distribuzione della ricchezza prodotta. Nell’ottica di una valorizzazione economica della cultura, si assiste così alla costante svalorizzazione del lavoro e delle professionalità che animano il mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo.

Rimini rappresenta un laboratorio particolarmente interessante in cui osservare questi fenomeni. Il ruolo determinante del turismo nell’economia del territorio rappresenta uno spazio in cui è cresciuta una specifica configurazione dell’industria culturale e dell’intrattenimento. Qui l’immediatezza della relazione tra cultura, spettacolo ed economia è piuttosto evidente. Nel resoconto della già citata inchiesta [1] si nota infatti come la Riviera, Rimini in particolare, rappresenti una realtà in cui la dimensione culturale prende forma in maniera diffusa e spontanea al di fuori di forti istituzioni (teatrali, museali, musicali, ecc..) ed in stretto legame con le dinamiche economiche.

La Riviera dei grandi eventi e del loisir è perciò uno spazio in cui sono potuti proliferare progetti, esperienze e professionalità, ma in cui è ben visibile quel paradosso di cui parlavamo sopra: se da un lato spettacolo, cultura e intrattenimento rappresentano elementi imprescindibili per la valorizzazione economica del territorio attraverso il mercato turistico, d’altro canto non sempre è facile lavorare in questo settore e vivere di queste professioni.  

Il forte ancoraggio all’economia del turismo è in effetti un’arma a doppio taglio. Se da un lato crea possibilità di lavoro, d’altro canto rischia di relegare le forme di espressione artistica e culturale ad un ruolo ancillare rispetto alle esigenze e agli andamenti del mercato turistico oltre che ai progetti di sviluppo che le classi dirigenti locali mettono in atto.
La produzione artistica e culturale rischia, per così dire, di essere “usata” in maniera crescente nella produzione di immaginari e brand legati al territorio, salvo poi beneficiare in maniera del tutto marginale della ricchezza che questi elementi contribuiscono a generare.

A ben vedere dunque, il settore di cui stiamo parlando è pienamente immerso nelle contraddizioni di questo territorio, a partire dalla natura strutturalmente intermittente della sua economia, legata all’andamento stagionale, e da una distribuzione della ricchezza sempre più polarizzata.
Anche la candidatura di Rimini a capitale della cultura 2024 prende forma in questa cornice e, senza un ripensamento di fondo del modello di sviluppo territoriale, rischia di esacerbare anziché attutire gli squilibri di questo territorio. La sfida però non è quella di eludere il tema del rapporto tra economia e cultura, ma di ridefinirne i termini in una cornice di giustizia sociale. Le produzioni artistiche e culturali dovrebbero infatti essere protagonista della creazione di economie virtuose e giuste, in cui la professionalità, la dignità e i diritti di chi lavora devono essere la spina dorsale.

Per fare ciò occorre sganciare, almeno parzialmente, questo settore dalla forte dipendenza che lo lega all’andamento stagionale dell’economia locale e ai grandi eventi estivi, slegarlo dal rapporto di dipendenza consentendogli di avere una dignità e uno statuto propri. Dovremmo iniziare forse a considerarlo un po’ di più patrimonio di un’intera collettività che vive il territorio 12 mesi all’anno; elemento non di semplice valorizzazione, ma di vera e propria cura dei luoghi in cui viviamo e collante di una collettività solidale, attiva e consapevole. Paradossalmente, se si riuscisse ad andare in questa direzione, persino i turisti che attraversano questa terra di provincia ne trarrebbero beneficio, entrando in contatto con una comunità più giusta ed avendo modo di vivere esperienze più autentiche e profonde, pensate e costruite più a misura di cittadino che di consumatore.

Dunque, se nel pieno della crisi che stiamo attraversando è inevitabile partire dalla necessità di offrire risposte immediate in termini di lavoro e reddito, d’altro canto urge aprire un ragionamento di ampio respiro su queste tematiche.

[1] Soggettività intermittenti. Inchiesta sui lavoratori dello spettacolo, a cura di IRES Emilia-Romagna (2013).

[2] Si vedano per esempio i rapporti «Io sono cultura» della Fondazione Symbola. https://www.symbola.net/collana/io-sono-cultura/